Di padre in figlio...
Ricordo ancora quella tiepida estate. Ricordo ogni singola pagina dei numerosi libri che lessi in quei tre mesi scarsi. Ogni pagina, Steinbeck, London, Stevenson, Melville, Saint’Exupery, Bierce, Conrad, Zola, Exquemelin, bruciava nel mio animo del fuoco lussurioso dell’adolescenza. I morbidi fianchi di donne perdute sulle banchine dei porti affacciati sullo stretto di Malacca, i petti ansiosi delle spose degli uomini imbarcati sulle baleniere che varcavano gli oceani, le rotte ed i sentieri inesplorati intarsiati nel cielo dei deserti, tra le onde rissose o nelle foreste impenetrabili. Erano dunque questi i palpitanti sogni che animavano le mie notti.
Compii 17 anni quell’agosto. Mio padre era morto da 15 anni. Trovato sfracellato tra le rocce del torrente che, a fianco della strada che portava a casa nostra, procedeva a balzi. Qualcuno osò parlare di suicidio ma fu messo a tacere dal denaro o dalle minacce e ben prestò tutta la faccenda divenne, nelle chiacchiere del paese, una tragica fatalità.
La mia famiglia era infatti padrona di quasi tutta la valle e mia nonna sosteneva che un nostro avo, Guglielmo anche lui, fosse morto difendendo la cappella dei Templari ad Acri. Credo che cercasse solo di regalare nobiltà ad una famiglia che traeva regalità solo dal denaro. Mio nonno, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, era divenuto ricchissimo con un cementificio. Intuendo che molto ci sarebbe stato da ricostruire in tutta la Lombardia, aveva investito i pochi risparmi in quella attività. Ben presto aveva esteso i suoi interessi ad ogni attività che portasse denaro. Ricordo che soleva dire che “Nessuno in queste valli può nascere o morire senza avermi dato un po’ di soldi!”. A scanso di equivoci, per tener fede a quel motto, si era subito accaparrato l’unica ditta di onoranze funebri della valle.
Uno degli ultimi giorni di quella lunga vacanza ero sceso in paese per comprare il giornale. Non avendo molta voglia di tornare a casa iniziai a girovagare. Entrai in una pasticceria e presi un caffè ed una brioche che feci mettere in un sacchetto di carta. Con il giornale sottobraccio mi avviai verso il parco del paese. Era il giardino di una villa che era sfuggita all’ingordigia di mio nonno eche era stato espropriato dal comune per farne un parco pubblico. Larghi sentieri di ghiaia percorrevano quell’appezzamento disseminato di ruderi e vecchi abeti. I bambini giocavano a nascondino scivolando dietro le alte siepi ed in ciò che restava delle case della servitù. Una torre di pietra grigia, parzialmente crollata ma messa in sicurezza, sembrava inghiottire i giocatori lasciandoli riemergere, grazie a cunicoli sotterranei, diversi metri più in nlà. Mi sedetti dunque nei pressi dei giochi all’ombra ristoratrice di un abete provvisto di generosi rami ed iniziai a sfogliare il Corriere della Sera. Dopo un paio di articoli iniziai a far fatica a seguire il fluire della prosa. Qualcosa mi disturbava. Senza sollevare lo sguardo mi concentrai dunque sui rumori che udivo. Tra il vociare dei bambini che si gettavano dagli scivoli o ondeggiavano pericolosamente sulle altalene, isolai la voce di uomo. Una voce squillante e potente, senza incrinature o accenti. Il tono era allegro. Reso folle da quella allegria...