mercoledì, ottobre 31, 2007

Massimiliano

Massimiliano ha qualche anno piu’ di me. Eravamo in classe insieme alle elementari. Era tra i piu’ alti della classe e tra i piu’ forti. Era un bambino vivace con sbalzi d’umore pericolosi. La schiena storta e la braccia sempre penzoloni. I capelli chiari come filo spinato sulla testa irregolare. Attraverso gli occhi, spesso due feritoie, brillavano occhi celesti vivaci. Ogni tanto, però, era possibile vederli tramutarsi in opache biglie di vetro.

Alcuni lo prendevano in giro e lo malmenavano altri, con perfidia simile ai primi, attendevano che accadesse per difenderlo.

Se avessimo davvero colto il suo essere come lo avremmo trattato? Può un bambino capire davvero cosa la vita ha negato ad un altro essere umano offrendo non odio o pietà ma solo accettazione, comprensione e affetto?

E io? Ho cercato di ricordare. Come ero con lui? L’ho mai considerato, se qualcuno lo ha mai fatto, per come davvero era? Quanto avrei potuto dare, insieme ad altri, a quel bambino che avevo al fianco per ore ed ore?

Durante l’intervallo correva scomposto in cortile inseguendo il pallone o restava coinvolto in frequenti discussioni per motivi banali. Spesso giocava da solo scavando, alla base di un piccolo dosso in cortile, una buca. Era arrivato ad un metro circa, e per questo lo guardavo con ammirazione.

Spesso gli davo una mano affascinato come ero da “La grande fuga”.

le autorità scolastiche, alla fine, decisero di interrompere gli scavi. Se il suo scopo fosse stato la fuga di certo non avrebbe iniziato gli scavi a 50 metri dalla recinzione.

Durante le battaglie con le altri classi veniva mandato avanti come un ariete. Convinti che godesse di impunità gli altri bambini fuggivano di fronte a lui per timore di sassi e pugni. Qualche volta Massimiliano trovava qualche vigliacco che gliele suonava. Lui allora piangeva.

A scuola aveva una maestra tutta per sé e qualche saltuario amico. Quando era di buon umore, si aggirava per la scuola abbracciando tutti con un sorriso buono sulla faccia.

Lunedi in piscina, guardando nella corsia alla mia sinistra, c’era Massimiliano. Non era cambiato molto.

“Massimiliano!” gli ho detto.
“Ciao! Ciao! Come stai?” si è sporto oltre i galleggianti della corsia e mi ha abbracciato con immutata foga.

“Ti ricordi di me?”
“No. Chi sei?” mi ha detto rattristandosi all’improvviso.
“Guglielmo! Eravamo in classe insieme alle elementari!Ti ricordi il maestro C.?”
“Si. E’ morto...” ha detto fissando l’acqua.
“Ma no. Non è morto!”
“Non lo vedo da tanti anni...”
“E la maestra F. te la ricordi?”
“No...è morta...”
“Cosa fai?” mi sono reso conto dopo dell’assurdità della domanda. Ma conoscendo già la risposta di tutte le domande che avrei potuto fargli e sapendo che a molte non avrebbe saputo rispondere, la nostra conversazione non aveva molti sviluppi.

“Nuoto!e tu cosa fai?”
Già. Cosa faccio?
“Ho due bambini!Ti ricordi della buca che scavavi in cortile?”
“Si!” si è illuminato “la miniera!”
“Con cosa scavavi?”
“Con un bastone...”
Ci siamo così riconosciuti.

Abbiamo parlato un po’ di Milan ed Inter. Mi ha detto che gioca in porta a calcetto. Intanto
continuava a prendere acqua in bocca e sputarla nella vasca. Alla fine abbiamo ripreso a nuotare.

Quando sono uscito dalla vasca sono tornato a salutarlo e a presentarmi con il bagnino che lo seguiva e con il suo accompagnatore.

“Nuota Massimiliano!” gli ho detto.
“Lui è veloce con la lingua ma non con le gambe!” ha detto il suo accompagnatore ridendo.

Massimiliano ha ripreso a zigzagare con la tavoletta nella sua corsia.

Mentre mi allontanavo ha urlato indicandomi: “E’ un mio amico...”

Lo sarò stato davvero?


Guglielmo

7 anni e 1 mese

Dopo tutto questo tempo lascio la mia azienda. A breve consegnerò il portatile, l'ultimo atto: questo post.
E' strano dire "ciao" a colleghi coi quali hai vissuto tanto tempo. Non è tristezza, è semmai un senso di liberazione da una realtà che, come mi conosce sa perchè me ne ha sentito parlare tante volte, mi è stata stretta parecchio.
Per chi vive il lavoro come una parte consistente e importate della propria vita, lasciare un'azienda è come lasciare un pezzo di se stessi: soprattutto di occasioni mancate.

Sono felice, lunedì inizierò un nuovo percorso. Diverso, intrigante, coinvolgente.
Evviva!
tec

lunedì, ottobre 29, 2007

Vecchiette

Capita, ogni tanto, di vedere qualche vecchietta attraversare la strada con il semaforo rosso. Avvicinandosi all’incrocio bisogna sempre osservare massima prudenza. L’anziana, in genere munita di sporta, caracolla sul bordo del marciapiede. Strizza gli occhi e si ingobbisce. A questo punto, che il semaforo sia rosso o arancione è indifferente, lei scatta. Si fa per dire. Incassando il collo nelle spalle, come a difendersi dall’impatto con qualche Suv rombante, fissa il selciato e, immagino dicendo un rosario, saltella verso l’altra sponda del viale. Quando giungono alla meta, tra colpi di clacson e stridor di gomme, si fermano soddisfatte.

Perchè? Mi chiedo spesso.

Dove corrono?

Invariabilmente le macchine che sopraggiungono al semaforo iniziano a frenare con rischi di tamponamenti ed investimenti per i distratti.


Gughi

venerdì, ottobre 26, 2007

tienili vivi in lui...

Quando ho raccontato del "trammo", gughi mi ha detto una cosa particolare: "tieni questi ricordi vivi anche in lui".

Oggi, causa sciopero del pubblico impiego, matteo e' stato gestito un po' da mia mamma e un po' da me.
Ad un certo punto gli ho detto: "ricordi al mare quando siamo stati soli io e te? quando andavamo in spiaggia, sul lungomare, sullo scivolo, sull'altalena.." poi gli dico: " e alla sera, cosa ti comprava il papà?"
"TATTO! " (ndt: GELATO!!!)
cacchio... se lo ricorda! Grande Gughi!

tec

Ma chi...

giovedì, ottobre 25, 2007

Ma chi...

mercoledì, ottobre 24, 2007

La valigia di mio padre

Con una dedica capace di emozionare mi è stato donato un piccolo libretto: “La valigia di mio padre”.

E’ una raccolta di tre discorsi tenuti dal Nobel per la letteratura Orhan Pamuk sulla scrittura e sulla letteratura.

Una riflessione, quasi amara, sul senso stesso della letteratura. Cosa ricerca lo scrittore? Cosa lo spinge ad isolarsi in una stanza, asserragliato tra pareti di libri, rinunciando in pratica a vivere?

Scrittura, per Pamuk, significa “prendere coscienza delle proprie ferite interiori e raccontarle ai lettori che le riconoscono per averle provate in prima persona”.

Lo scrittore costruisce mondi con le parole. Fugge dal mondo reale e ne costruisce uno diverso.

Un mondo che lentamente si anima e prende una propria vita. I personaggi, le strade, le piazze, le case, gli uomini e le donne iniziano ad interagire da loro sfuggendo al controllo del loro creatore (o scopritore?).

Ma esistono poi mondi così come vengono descritti? La Port Royal di Steinbeck è quella in cui passeggiò Henry Morgan? Il Sacco di Roma avvenne come lo vide secoli dopo “Leone l’Africano” di Maalouf?

Credo di no. Quelli descritti sono mondi possibili, mondi probabili ma non reali. E allora perchè si scrive? Perchè si legge? Forse per vivere altre vite. Appunto possibili, probabili.

Berardi, autore di Ken Parker, disse in un’intervista che il suo personaggio aveva assunto vita propria. Che per come era cresciuto nel tempo e per le esperienze che aveva vissuto nelle varie avventure non poteva che comportarsi in un certo modo. L’avventura umana del biondo Ken aveva preso la sua ineluttabile direzione. A Berardi non restava da fare che scriverla. Ad un certo punto, negli ultimi numeri che precedettero la chiusura, Ken divenne l’autore delle sue stesse storie. Il protagonista narrava ricordi della sua vita e a sua volte diventava scrittore di romanzi. Berardi scriveva storie scritte dalla sua creatura narrativa. Scrivendo, in un gioco di specchi, avrà tenuto conto della sua sensibilità ma anche di quella, che lui come autore aveva forgiato, di Ken stesso.

La scrittura è saper ordinare la parole su un foglio. Saperle “pesare”, continua Pamuk, legandole ad altre parole. Rimirarle da lontano e cesellarle con attenzione certosina. Ma ancora di piu’ scrivere è “parlare di cose che tutti conoscono ma che non sanno ancora di conoscere. La grande letteratura non parla delle nostre capacità di giudizio, ma della nostra abilità di metterci nei panni di un altro”.

Questa sensazione, aggiungo io, è dolorosa.

Calarsi nella vita altrui, vedendone con l'occhio di un esterno le miserie che a lui sfuggono o che preferisce non vedere, è dolorosissimo.

Questa difficile operazione, vivere la vita di un altro, illumina le miserie delle scrittore perchè non solo lo rende consapevole che ci abituiamo sin da bambini a levare lo sguardo dalle nostre miserie, dai nostri fallimenti e dalla caducità delle cose ma anche perchè nelle miserie altrui rivediamo invariabilmente le nostre.

Scrivere forse è questo. I grandi scrittori non hanno bisogno, non hanno nemmeno il tempo, lo spirito o semplicemente la possibilità, dice Orhan, per vivere le vite che narrano. È la loro abilità nel narrare la vita altrui come fosse la propria e quella propria come fosse di altri che li guida nella scrittura.

Alcuni dei pochi personaggi che ho creato sono nati in macchina, nel traffico, sotto la pioggia, o pedalando in bicicletta. Alcune pagine, alcune frasi, le ho scritte nella mente facendo altro. Dopo ore, a volte giorni, le ho riversate su carta e poi le ho limate. In questi giorni sto scrivendo un racconto per i bambini del gruppo a cui io e la mia famiglia partecipiamo. Il protagonista, un bambino che vive in una indefinita e avventurosa preistoria, è comparso da dietro una roccia nelle profonde viscere delle grotte di Toirano. Nella “sala dei misteri” vi sono concentrate impronte di uomini preistorici, orsi delle caverne e palline di argilla rimaste attaccate alla parete contro cui furono scagliate, forse in un rito di iniziazione. Il bambino preistorico, il cui nome se digitato in Google rimanda ad un sito porno giapponese, ha provato e fallito il rito di iniziazione ma ha trovato un pronto riscatto.

Ora il personaggio non è piu’ mio. Qualcuno lo ha disegnato, diverso da come io lo immaginavo. I bambini hanno parlato di lui. I genitori hanno risposto alle loro domande a modo loro (senza interrogarmi su come Tiki fosse in realtà. Sempre che avessi la risposta alle loro domande....) Ed ora lui è nell’aria. Ed io sono costretto a raccontare la sua storia. Ogni tanto Tiki, sullo sfondo di una foresta gelida ed umida, mi balza davanti e mi racconta un pezzo della sua ultima avventura.

Aggiunge piccoli pezzi della sua storia che si incastrano perfettamente con quelli che già mi ha raccontato o che pongono tutto sotto una nuova luce.

Scrivere è una meravigliosa avventura.


Guglielmo

martedì, ottobre 23, 2007

Il Kid

Federico è uscito da una lunga settimana di febbre. Il piccoletto appariva prostrato e malinconico. Pochissimi sorrisi ed un clamoroso rifiuto del nutrimento. In tempi normali Sbuzzy Boy fa fuori un antipasto di formaggi della casa, una generosa verdurata con pasta annegata in olio e grana ed un barattoletto di frutta a piacere. Poi, dal suo trespolino, studia la nostra cena e se individua qualcosa di suo gradimento non esita a chiederne piccoli assaggi. Puntando il dito sull’alimento prescelto urla come una scimmia ed alza al cielo gli occhi irrigidendosi come in preda ad una crisi epilettica. Che si tratti di orata, patate al forno, riso con i funghi o pizza poco importa. Basta che la fornace che ha al posto della bocca continui ad essere generosamente alimentata. Se la cosa è graditissima in uno eccesso di entusiasmo si gira l’indice nella guancia. Se perde il controllo li gira tutti e due ma nell orecchie. Finito di mangiare insiste per venirmi in braccio. Lo poso sul bordo del tavolo e dico “giu!”. Lui, assicurandosi che qualcuno lo guardi, si getta giù dal tavolo tra le mie braccia. Prima di posarlo a terra lo faccio dondolare come un pendolo tenendolo per le ascelle. Non si stanca mai del dondolio.

Passata la settimana di malattia il piccoletto si è ripresentato sotto nuova veste. Al posto del camaleontico Federico, capace di mimetizzarsi con estrema abilità in ogni situazione, è comparso una specie di Billy The Kid in patello. Come se la febbre gli avesse bruciato le sinapsi il nostro fuorilegge si aggira per la casa a caccia di guai. Si arrampica sulla poltroncina di suo fratello e da li, piuttosto concentrato, salta cercando di mettersi a sedere. Se il numero non riesce rimane immobile al suolo con lo sguardo fisso per una frazione di secondo e, quando si rende conto di essersi stabilizzato nella caduta, si rialza ridendo. Appena scompare dallo schermo dei radar di controllo si può contare sino a 10. Ad 11 un botto: Giochi lanciati, porte di armadietti sbattute, cd che volano come frisbee. Appena lo si coglie di sorpresa lui getta tutto quello che ha in mano e, fermo come sotto il fuoco nemico, ti pianta i suoi occhi blu in faccia e, con aria sorpresa, pare dire: “Moi?”.

Mentre gira innocentemente per la casa canticchiando in falsetto motivetti probabilmente scozzesi (“ta, tatata, tata, tata”) è in realtà sempre pronto al caos. Stasera, in un attimo di distrazione del sistema di sicurezza, si è avventato sul phon in attesa del crapino del Ricky. Ha strappato la spina dalla parete trascinandosi addosso la mia lampada da lettura. Tutto gli è crollato addosso. L’ho tratto in salvo dai cocci di vetro e lui, incurante del rumore, continuava a brandire il phon come uno Stinger. Ai rimproveri opponeva un fiero sorriso carico di orgoglio.

Quando può far ridere qualcuno è felicissimo. Una risata, se poi è di suo fratello è il tripudio, lo ripaga di ogni affanno.

Quando le campane della chiesa iniziano a suonare il demonietto si mette in posizione. Spinge il sedere in fuori, incassa la testa nelle spalle, ed inizia a ballare come tarantolato. Se si accorge di avere un certo seguito, l’energia profusa raddoppia accompagnando i movimenti composti con risate gioiose.

Con una piccola spada di legno si aggira per casa cercando battaglie. Mi colpisce sulla testa ed attende una reazione. Se lo rincorro si chiude in camera sua. Ogni tanto si affaccia dalla porta e scaglia qualche oggetto accompagnando il tutto con enormi sorrisi. Piu’ gazzarra c’è piu’ lui è contento.

Se alle 18.00 non sono a casa inizia ad andare alla porta e a chiamarmi. Appena arrivo a casa corre verso di me con le braccia al cielo sparando suoni a raffica. Immagino voglia raccontarmi la sua giornata e rimproverarmi per il ritardo. Io lo saluto carezzandogli la testa ed abbracciandolo.

Alla fine, stremato, lo depositiamo nel suo lettino. Alle 20.15 massimo poggia la sua testolina bionda cespugliosa sul materasso, infila le mani tra il materasso ed il paracolpi e si addormenta. In questi giorni, verso mezzanotte, gli porto l’antibiotico. Gli infilo la siringa in bocca e lui sorbisce tutta la medicina. Tira su la testa, si beve una sorsata d’acqua fresca e subito, dopo che gli ho detto “Posa il crapino adesso…”, si rimette a dormire.

Dopo qualche ora, nel cuore del risveglio, sentirò una vocina squillante in falsetto: “Dadadadadadadada!”.

Mi chiedo sempre se stia chiamando me o sia la sua imitazione di una mitragliatrice pesante Breda.


Dadadadadadada Guglielmo

Medici

Negli Stati Uniti, la diffusa abitudine di fare causa ai medici, ha innescato un meccanismo paradossale.

Per fronteggiare le numerose cause i medici sono costretti a stipulare assicurazioni. Nel corso degli anni i professionisti, sottoposti a denunce anche per inezie e facilmente condannati da giudici che tendono a tutelare i pazienti, sono costretti a pagare premi talmente onerosi che diventa antieconomico lavorare. Rinunciano quindi alla sala operatoria per dedicarsi agli studi privati. Il fenomeno ha portato molti bravi dottori a non effettuare piu’ interventi ed in pratica a ritirarsi dalla prima linea della chirurgia.

Un altro aspetto non trascurabile riguarda i rischi che i medici si assumono. Per evitare cause e denunce molti medici ammettono di non andare oltre il dovuto. Evitano interventi rischiosi limitandosi a fare ciò che li mette al riparo da denunce di qualsiasi tipo. Nel dubbio la priorità non è piu’ la salute del paziente ma l’inattaccabilità del medico stesso.

Anche sul consenso informato la questione è delicata. La normativa è talmente stringente che facilmente un medico può essere accusato di aver indotto il paziente ad accettare un intervento piuttosto che un altro. Spesso il convincere un paziente ad effettuare un intervento, necessario ed utile, espone il medico a rischi di conseguenze legali.

La medicina insomma si è trasformata in un campo minato. Una scienza che di fatto non è esatta viene trattata come tale. Un medico ha il diritto di sbagliare? Ha il diritto, se ha operato con il massimo scrupolo e la massima diligenza possibile, di commettere un errore? Il prezzo di un errore è a volte altissimo ma una politica iperprotettiva nei confronti dei pazienti mette i medici di fatto nelle condizioni di non poter piu’ lavorare utilmente.

In Italia il fenomeno è ancora limitato ma non è escluso che anche qui diventi una piaga del sistema sanitario.


Guglielmo

Rosso

Non amo la Formula Uno e la seguo pochino. La trovo noiosa ed ingessata. Ma la rimonta della Ferrari e di Raikkonen mi ha appassionato. Vedere la tecnologia italiana trionfare su quella anglo tedesca è stato bello. Vedere le due Rosse, bellissime, acquattate ai piedi del podio mentre suonava il nostro Inno è stato il trionfo del lavoro e della correttezza sulla solita furbizia (per una volta non italiana). A parti invertite ci saremmo flagellati per anni su come gli italiani siano furbi e scorretti. Avendolo fatto gli inglesi (ma chissà perchè poi nessuno la chiama McLaren- Mercedes) si trattava di spy story.

Penso lo spionaggio faccia parte di questi sport dove il mezzo conta quanto il pilota. Ma credo anche che Hamilton e il suo team abbiano esagerato.

Il segreto della vittoria io l’ho trovato nelle immagini della tarda notte di domenica. Baldisserri esce dalla torre della pista. Nel petto la gioia della vittoria e la certezza del titolo stretta tra le mani. Potrebbe gigioneggiare davanti alle telecamere. Indugiare in commenti polemici o semplicemente celebrare la vittoria. Invece, indemoniato, continua a ripetere: “devo dirlo ai ragazzi”.

Si precipita verso la ripida scaletta in ferro e a passo spedito corre vero il box Ferrari. Si vede che vorrebbe correre ma la telecamera che lo infilza alle spalle lo impedisce. Tentano di bloccarlo con altre domande ma lui, invasato, continua: “devo dirlo ai ragazzi”. Alza un pugno vero il cielo. Il team, i meccanici, ululano di gioia.

“Dentro! Dentro! Porta dentro i ragazzi” ordina. Sotto la tettoia di cemento, lontano dalla telecamere, Baldisserri ha urlato qualcosa (Credo “Siamo Campioni del Mondo!”) e il team ha esultato di gioia. Quello è un capo. Un uomo che ha ottenuto il massimo da ogni singolo elemento della squadra e sa che “si perde insieme e si vince insieme”. Proprio per questo, dopo una vittoria così sofferta, il primo pensiero è di condividere la gioia ed il trionfo con “i ragazzi”.

Dal rosso Ferrari al rosso della fontana di Trevi. L’imbrattatore è ora definito un genio. Il suo, un gesto dadaista sublime. Vedere la Fontana di Trevi, cosi carica di riferimenti simbolici (Totò che cerca di venderla, la pluricitata Ekberg ), completamente tinta di rosso è scioccante. Colpisce l’immaginario. Come vedere il duomo dipinto di verde o la Gioconda sfregiata da una coltellata. Ma è un gesto sublime? Un gesto “dadaista”? o solo il culmine della diffusa abitudine di stupire ad ogni costo?

Attendiamo gli emulatori.


Guglielmo

giovedì, ottobre 18, 2007

Gli occhi sulla palla

La nostra vita è la somma di alcuni decisivi minuti. Sommandoli tutti insieme non si raggiunge l’ora. Sono quei momenti in cui i sacrifici e le fatiche si raggrumano in un complimento, in un elenco appeso ad una parete o in un successo. Sono rari istanti, pochi, nei quali abbiamo la sensazione che tutto il lavoro effettuato nel corso di mesi, a volte anni, abbia finalmente un premio. Nell’incessante scorrere del tempo riusciamo a raggiungere un obiettivo che nulla e nessuno potrà mai cancellare. Nessuno potrà mai dire: “non è accaduto”. Perchè oltre , a volte, ad essere scritto nero su bianco su qualche foglio appeso ad una parete è impresso indelebilmente nella memoria di chi c’era e, ciò che piu’ importa, nella nostra memoria.

È l’ultimo atto di una lunga corsa. Una corsa che che si fa continuando a tenere gli occhi fissi sull’obiettivo. Malgrado la stanchezza, malgrado la pioggia, malgrado la fatica ed il dolore continuiamo a tenere gli occhi sulla palla che, lentamente, declina verso di noi e verso le nostre braccia. Il segreto, spero di aver imparato, è quello di continuare a tenere gli occhi fissi sulla palla e sulla meta.

Stamattina, vedendo Claudia che si alzava dalla sedia posta di fronte alla sua commissione di Laurea, ho immaginato si sentisse così. alla fine di una lunga e faticosa corsa. Dalle parole della sua relatrice, dalla sicurezza con cui mia cugina ha esposto la sua tesi e dalla lucidità con cui ha riposto alla domanda ricevuta si è capito che dietro quei pochi lucidi proiettati sulla parete c’erano tante ore trascorse in corsia a raccogliere dati. Tante ore sui libri e davanti al Pc per organizzare coerentemente numeri e percentuali e trarre solide conclusioni. Ore, insomma, con gli occhi fissi sulla palla.

Quando la commissione l’ha congedata mi è tornato in mente quella lontana mattina di tanti anni fa. Mi trovavo in classe e comparve mia madre sulla porta facendomi segno di uscire in fretta: Claudia era nata.

Quel piccolo fagottino è cresciuto e stava per diventare Dottore.

In quell’istante, mentre si alzava dalla sedia per tornare al posto e raccoglieva i sinceri applausi dei presenti, dentro di se avrà provato quella sensazione. La certezza che alla fine il lavoro e l'impegno pagano.

La palla tanto fissata, finalmente stretta tra le mani.

Serberà questa emozione per sempre tra i ricordi piu’ preziosi. Nessuno potrà mai togliergliela.

Vi farà appello ogni volta che si sentirà stanca e sfiduciata ogni volta, insomma, in cui pioverà, farà freddo, i muscoli saranno stanchi e gli occhi si chiuderanno.

Ricorderà quella frazione di vita, durata davvero una minuzia, e saprà che è essenziale continuare a tenere gli occhi fissi sulla palla....

Guglielmo

mercoledì, ottobre 17, 2007

Pd

Riccardo, dopo avergli detto che sarei andato a votare, mi ha chiesto cosa significasse.
“Significa scegliere chi vogliamo che decida per noi nel migliore dei modi ”.

Avrei voluto aggiungere che significa far capire, a chi pensa di poter continuare così, che in realtà noi siamo stanchi. Perchè credo che la cosiddetta “antipolitica” faccia comodo a molti. Faccia comodo a tutti politici che credono di poter cavalcare il malcontento in maniera populistica riciclandosi sfacciatamente o creando movimenti ad hoc nei quali convogliare i voti del malcontento.

E questa volta, a differenza del passato, è stato votando che si è trasmesso il messaggio che siamo stanchi. Siamo stanchi della sinistra radicale che manda le proprie scarpe da centinaia di euro a far pulire in centro a Roma (usando commessi della Camera...) e dei vari correntoni che si differenziano tra di loro su dove posizionare la falce ed il martello nel logo del partito.
E quindi, due euro in mano, ho votato. Ho votato Super Walter. Perchè Walter non doveva solo vincere, doveva stravincere. Perchè deve avere la forza, tra l’ironia e le resistenze varie, di creare un partito nuovo dove ci sia spazio per le idee e per le energie nuove.

Cosa mi fa credere che cambierà qualcosa? In realtà è una scommessa. Scommetto su un uomo che ha lavorato bene e che scrive libri su Robert Kennedy. Un uomo che credo si senta investito da un compito e che, forte dei tre milioni e passa di persone che hanno avuto fiducia in lui e di quelli che si aggiungeranno, saprà dare una scossa alla palude melmosa della politica italiana incurante delle catene che bloccano il Paese.


Guglielmo

TRAM(MO)!!!

Quando, quasi ogni mattina, porto Matteo al nido, incrociamo il tram. E' da un po' che si sbraccia, indica, saluta e grida "TRAMMO!".
Ieri sera, prima di dormire gli ho detto: se fai subito la nanna, papà domani ti porta sul tram(mo). L'ho sentito, qualche minuto dopo, sussurrare "trammo.." mentre si abbandonava a morfeo.
Stamattina di gran carriera, dopo aver finito il lattO, si è fiondato alla porta cinguettando "trammo, trammo...".
e così siam saliti. Alla fermata l'attesa è stata riempita dalla lettura di un volantino di un affittacamere agli studenti: ma si capiva che matteo non aspettava che il tram.
Appena ne è comparso uno all'orizzonte, mi si è catapultato in braccio. Era uno verde, i più belli...
Appena saliti, ci siamo accomodati su due posti. Non ho mai visto mio figlio così assorto: si guardava intorno, attento: indicava i passeggeri, si beava della sua situazione. Il culmine l'abbiamo raggiunto quando gli ho fatto suonare il campanello della fermata.
Siamo scesi, e lui, educatamente, ha salutato tutti, tram compreso.
Entrati all'asilo è corso subito dai suoi amici ripetendo una sola parola: TRAMMO!!
Ha ragione Gughi, ci sono momenti, condivisi intimamente con tuo figlio, anche senza la mamma, che ti rimangono in testa. Io ricorderò sempre lo sguardo di matteo appena salito sul trammo.
tec

martedì, ottobre 16, 2007

Iphone e l'ambiente

La campagna denigratoria verso l'Iphone prosegue...

martedì, ottobre 09, 2007

Blowback (ritorno di fiamma)

Spesso la storia non viene mai raccontata. La viviamo in maniera frammentaria seguendo le cronache dei giornali e della tv ma a posteriori nessuno si prende la briga di capire cosa è accaduto davvero (sempre sia possibile saperlo) e le conseguenze che certe scelte hanno portato.

La nostra fruizione dell’informazione è quotidiana. I giornali, e la televisione men che meno, difficilmente riescono a darci una visione ampia delle questioni. Dibattiamo dunque su situazioni incombenti senza sapere cosa le generate e di cosa sono frutto.

Un tentativo, parziale e con alcune generalizzazioni, lo fa C. Johnson in Gli ultimi giorni dell'impero americano. Già il titolo pone diverse questioni. L’America è un Impero? E se si, è in declino?

E’ un libro che ripercorre gli anni dal dopoguerra ad oggi con riferimento alla politica estera degli Stati Uniti nell’area Asiatica. L’autore analizza quello che definisce il “ritorno di fiamma”, le conseguenze cioè che a breve a lungo termine compaiono in conseguenza di azioni militari e non.

La priorità delle amministrazioni che si sono susseguite è stata, in sintesi, il contenimento del comunismo. Il mantenimento delle basi americane nel mondo e dei paesi alleati ha comportato compromessi commerciali, che alla lunga hanno danneggiato il tessuto produttivo americano, e compromessi con sanguinari regimi che non hanno fatto che far accrescer l’odio verso gli Stati uniti.

Il favore commerciale concesso ad esempio al Giappone prima e alle Tigri poi ha di fatto scardinato l’industria manufatturiera statunitense comportando costi sociali enormi per l’America stessa.

Tra le cause della possibile fine dell’impero l’autore ravvisa dunque l’eccessivo potere dell’apparato militare-industriale americano. Il trito luogo comune sulle guerre combattute per favorire le industrie belliche trova qui spiegazioni ed analisi precise.

Uscito nel 1999 fu bollato come un delirio. In alcune pagine però citò Bin Laden ed i rischi di un ritorno di fiamma sul suolo americano per le politiche americane in Arabia Saudita.

Non contiene verìtà o rivelazioni ma aiuta a riflettere su cosa sia oggi l’America e su cosa possa fare per uscire da questa fase della sua storia.

Le sue conclusioni sono in parte condivisibili. qualcuno, piu' grande di lui e che amava l'America piu' di lui, disse piu' o meno le stesse cose: G. Washington mise infatti in guardia i suoi concittadini da un eccessivo potere nelle mani degli uomini in divisa.


Guglielmo

lunedì, ottobre 08, 2007

"A", come Antoine

Nell’ultimo numero dell’Espresso, dalle prime pagine, emerge la pubblicità di una nota casa di orologi. Il modello reclamizzato, intuisco subito intravedendo la sagoma del Piccolo Principe, è dedicato ad Antoine de Saint’Exupery. Il noto aviatore, scopritore di rotte e scomparso a bordo di un aereo da ricognizione verso la fine della seconda guerra, avrebbe scelto sicuramente, a detta dell’azienda svizzera, il cronografo a lui dedicato per affrontare le trasvolate di cui si rese protagonista. Se solo gli amanti dello scrittore ( e gli amanti, si sa, non fanno gran uso del raziocinio) dovessero tentare l’acquisto di uno dei prestigiosi modelli (1926 0 1929 pezzi a tiratura limitata, non ricordo quanti e mia moglie, scopro ora, mi ha gettato via l’ultimo Espresso credendo fosse quello di settimana scorsa), allora il cronografo resterebbe invenduto. Uno che ha scritto ( o letto, condividendo) le prime pagine del Piccolo Principe e che ha detto “L’essenziale è invisibile agli occhi” potrebbe comprare a suon di migliaia di euro un orologio con vergata una svolazzante “A” (Antoine) sul quadrante?

Saint’Exupery era un uomo che per l’intera vita ha inseguito la sua infanzia. Ne aveva talmente nostalgia che realizzò, da adulto, il sogno di ogni bambino: incontrare un amico unico, irripetibile, purissimo, che viene dallo spazio, che ha visto mille mondi, da cui ha tratto infinita saggezza, e che, per una rosa, è pronto a far follie.

Cosi noi, forse, attraversiamo la vita inseguendo la nostra infanzia. Inseguendo, attraverso il possesso dei soldi, delle cose e delle persone, quel senso di sicurezza, invincibilità e stupore per sempre smarrito. Ogni tanto, di fronte ad un bel libro, ad un film che ricalca pezzi di sogni o ad un odore, brandelli dei primi anni della nostra vita tornano a visitarci per poi lasciarci, quasi prostrati, un istante dopo. Il cortile dove tengo la mia bicicletta è il cortile dove bambino feci i primi giri in bici e dove, con un SuperTele, feci memorabili partite con Archie. Ogni tanto, misteriosa alchimia, dal ventre della “mia” vecchia casa, dal gabbiotto in cui riposa la mia Olmo (anche la mia prima bici era una Olmo), si leva il profumo dei primi giorni della mia vita. E mi piace pensare che anche per i mie figli quell’odore, quando saranno uomini, significherà la loro prima bici e i gli infiniti pomeriggi di gioco che precedono l’estate e che, dopo mesi, declinano con il sole autunnale.

Mi accorgo, qualche volta, di volere che anche i mie bambini provino le emozioni che io ho provato. Ricordando mio padre che ci preparava le castagne e le patate al forno, quando arriva ottobre, inizio, quasi ogni sera, a preparare castagne. “E’ iniziata la stagione delle castagnette!” mi dice eccitato Riccardo.

Ricordando mio padre che tornava a casa dal lavoro con sacchetti di preziose biglie di porcellana, torno a casa con qualche pacchetto di figurine di “Dragoonball”. Li nascondo organizzando una caccia al tesoro con i ragazzi.

(Ora mia madre mi chiamerà dicendo: “E tua madre? Tua madre non faceva nulla?”)

Cerco, forse sbagliando, di dare loro ciò che di buono e che ricordo ho avuto e ciò che penso mi sarebbe piaciuto ricevere.

Stasera abbiamo mangiato castagne raccolte ieri. Mangiare il frutto ed il prodotto diretto del proprio lavoro è un privilegio che va svanendo. Io, per lavoro, sposto numeri e mangiare con i miei bambini castagne raccolte con loro lungo sentieri di montagna ha un sapore particolare. Abbiamo frugato tra le foglie a terra mentre il sole frugava tra le foglie sugli alberi cercando di scaldarci. Abbiamo lanciato bastoni nella boscaglia fingendo fossero coltelli di indiani in cerca di bersagli. Nel tappeto di foglie e ricci, nel fieno fradicio e nel fango morbido, abbiamo finto che le creature del bosco, gelose dei loro giacimenti di castagne, ci dessero la caccia indispettite dalla nostra bravura di raccoglitori.

Abbiamo atteso, per tornare a casa, che l’ombra scivolasse tra gli alti alberi e che l’invincibile freddo calasse dalle montagne dietro cui si inabissava il sole.

Sulla via di casa, affogati nel traffico, scrutando dallo specchietto della mia invincibile Toyota, ammaccata da un uomo che mai conoscerà il significato della parola “onore”, ho visto i miei bambini dormire sfiniti dalle emozioni.

Ho pensato che anche questi sono anni di sicurezza, invincibilità e stupore…


Guglielmo

mercoledì, ottobre 03, 2007

Isiah

Isiah Thomas è stato, con Magic Johnson, il piu’ grande play a cavallo tra ‘80 e ‘90.

Alto circa 190 cm, un nano in mezzo ai colossi della Nba, Isiah era capace di giocate spettacolari e di raro acume tattico. Magic e Isiah, amici veri, si scontrarono in paio di finali Nba dove Isiah, con una caviglia a pezzi (si recava al palazzotto con le stampelle) fece scintille e guidò, indemoniato, i Detroit Pistons contro i Lakers. Isiah, dai quartieri poveri di Chicago, era il simbolo del riscatto e della forza della volontà. Testimonial di campagne anti droga era l’esempio classico che veniva imposto ai giovani neri dei quartieri disagiati americani. Inutile dire che anche nella benestante Arese il talento di Detroit aveva i suoi seguaci. Io possedevo una maglietta con scritto “Isiah” ed il suo numero di maglia stampato sul petto. 11.


Oggi, scorrendo il Corriere, scopro che il leggendario ed umile Isiah altri non è che un molestatore di donne. Allenatore dei Knicks di New York è stato condannato per aver insultato e molestato a piu’ riprese, con una certa dose di crudeltà (il Madison Square Garden e la sua società sono stati multati per circa 13 milioni di dollari), una donna manager (di colore) della sua società.

Delusione e tristezza. Con questi sentimenti accolgo la notizia e credo che Archie, quando lo saprà, sarà ugualmente deluso ed amareggiato.

Con la maglietta di chi giravo da ragazzino? Quella di un molestatore?


Gughi

Ce l'ho da un minuto...


e confermo quanto detto dall'architetto.
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