venerdì, novembre 21, 2008

Houston, Texas.

Se proprio Dio mi avesse voluto giocatore di calcetto, mi avrebbe fatto piu’ basso, con le braccia piu’ corte, i piedi piu’ piccoli ed una coordinazione ed una resistenza di fondo maggiore. Al dunque si invece orientato su un giocatore di basket. Era chiaramente distratto. Per fare le cose fatte bene avrebbe dovuto darmi una ventina (ma anche 25…) centimetri in piu’, caviglie piu’ forti, maggior coordinazione e la pelle di un colore diverso. Oggi sarei il centro dei Rockets (ormai prossimo al ritiro) e vivrei a Houston, Texas (Per circa 10 minuti della mia vita le possibilità di trasferirmi a Houston, Texas, sono state fortissime. Almeno sino a quando, circa 12 anni fa, non ho strappato il biglietto su cui la mia insegnante di inglese, che veniva da Houston, Texas, aveva scritto, in lacrime per la fine delle lezioni, il suo numero di telefono. Mentre mi abbracciava, nell’imminenza della sua partenza, mi disse che avrebbe avuto piacere, al suo ritorno da Houston, Texas, di mangiare una pizza con tutti suoi alunni. Il dettaglio che la sua classe si riducesse a me solo, all’epoca, fu giudicato insignificante. Con la maturità ho dato a quell’episodio un significato diverso.)
Malgrado quindi nel mio Dna non sia tracciato il profilo del calciatore, mi piace giocare. Con un gruppo di amici, padri di famiglia, è da circa tre stagioni che affittiamo un campetto per giocare il mercoledì sera. La mia stagione a volte si interrompe bruscamente a causa di infortuni fisici o quando il desiderio di picchiare gli avversari si fa urgente (è allora che riscopro il silenzio avvolgente del nuoto e la solitudine del ciclismo). Al momento, però, la mia stagione è ancora in corsa. Da lunedì comincio a scrutare con lieve ansia le adesioni dei giocatori e le previsioni su meteo.it. Martedì iniziò ad ascoltare il mio corpo: Tosse ? Naso chiuso? Polpaccio destro che mi duole? Schiena? Mercoledì mattina, a seconda del tempo, ragiono sull’abbigliamento e sui possibili colpi da copiare dai campioni della domenica (da qualche settimana sto lavorando ad una finta/tiro che ho visto fare a Totti e ad uno stop di Ibra. Mi è ormai chiaro che il terreno di gioco non è congeniale a quel tipo di gioco e mi sto quindi orientando verso un paio di colpi che ho visto fare in Nuova Zelanda-Isole Samoe Occidentali di rugby.) Finalmente arriva mercoledì. Se lavoro sino a tardi prendo un’ora di permesso spiegando i segreteria che devo partecipare ad un Congresso di Neuro chirurgia in vista di una seconda laurea. La cosa in genere sorprende molto le colleghe addette, piu’ che altro perché all’oscuro che ne possieda una. Alle 21, messi a letto i bambini (il denominatore comune, salvo un eccezione, è la paternità) i giocatori si presentano in campo. Quelli con i figli piu’ grandi in genere rubano a quest’ultimi maglie e scarpe . Alcuni si presentano con tute che probabilmente utilizzavano alle medie per fare ginnastica mentre un paio ho il sospetto che vengano direttamente in pigiama. Sulle scarpe esistono poi diverse scuole di pensiero. Ginocchiere, cavigliere, occhiali alla Jabbar e fasce varie si sprecano. Fatte le squadre (ho fatto uno studio: fare due squadre equilibrate probabilmente entrerebbe in contraddizione con la teoria dei Quanti e con paio di postulati del Teorema sui gas di Avogadro) si inizia a giocare. La palla scivola sul campo sintetico (bellissimo) come una biglia sul tavolo da bigliardo. I ragazzi si scatenano. C’è quello che si immola su ogni tiro nemmeno fosse “The Final” e quello che appena la sfera prende velocità si scansa perché teme danni fisici. Il campionari di professioni è variegato. Un paio di ingegneri (di cui uno convertito al marketing, che è come mettere uno specializzato in escavatori a restaurare una Madonna di Raffaello), una spruzzata di rappresentanti, un ricercatore universitario ( percorre la fascia come un treno e scarica bordate impressionanti), un appartenente alle forze armate, qualche impiegato, un artigiano, un ottico (l’anno scorso gli ho tirato una pallonata nell’orbita sinistra. Un paio di giorni dopo sono andato a trovarlo in negozio e sembrava reduce da una rissa. Un paio di suoi dipendenti, quando hanno scoperto che ero stato io, si sono complimentati) ed infine due scrittori (io e il Bolla. Gino, sul campo, pare uscito dal film “I pesci” con Julius Erving).

Sul campo si vede di tutto. Alcuni appena hanno la palla tra i piedi la sparano via. Altri non la stoppano nemmeno se gliela metti tra le mani. Un paio appena hanno la sfera tra i piedi la tirano in porta mentre altri crossano nemmeno in area ci fosse Luca Toni pronto a buttarla in rete. Io, come Ibra, mi diverto di piu’ facendo segnare che non segnando. Come Ibra mi incazzo parecchio quando perdo (le similitudini si fermano qui) e sono sempre convinto che il mio passaggio fosse millimetrico. Comunque finisca la partita resta sempre la sensazione di aver trascorso una bella serata con amici e di aver affrontato, come legionari romani, gli elementi atmosferici e di aver riscoperto il piacere di darle e prenderle.

Il giorno dopo mi lazo sempre con la stessa sensazione. Il polpaccio destro mi fa male. Mi sembra di avere due chiodi arroventati dentro le caviglie, un incudine gelata tra polmoni e diaframma ed un cassettone sui lombi. Mentre mi trascino nei corridoi dell’ufficio (piuttosto fiero della mia zoppia) immagino i ragazzi sul posto di lavoro. Li vedo sornioni spiegare a clienti, colleghi, segretarie che “ieri sera una partita incredibile. Ho preso una botta sulla coscia e stamattina quasi non mi alzavo”. Come veterani innalzano le occhiaie per la stanchezza come ferite di guerra.

Appena riesco vi farò avere una cronaca di un match.

Per ciò che riguarda la faccenda di Houston, Texas, nel caso vi venisse in mente di chiedermi chiarimenti, fatelo via mail e non davanti a mia moglie. Conosce la faccenda nel dettaglio ma, come dice Sean Connery ad un Alec Baldwin che, in “Caccia a Ottobre Rosso”, si avventura nel ventre nucleare del Classe Tifone alla ricerca del cuoco: “Stia attento con quella pistola. Quello che c’è qua dentro non reagisce tanto bene ai proiettili…”


Guglielmo
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