lunedì, aprile 07, 2008

Corri!

Il generale, vecchio e zoppo, si appoggia con il bastone alla fredda sabbia spazzata dall’oceano e dai proiettili dei tedeschi. E’ riuscito con l’inganno a seguire i suoi uomini. La spiaggia è sbagliata. L’equipaggiamento è sbarcato altrove. Nessuno ha la mappa del terreno, cosparso di insidie, campi allagati e trincee nemiche, che si estende da li alla città che devono conquistare entro poche ore. Il generale non si volta mai verso l’oceano. Non cerca aiuto o lancia recriminazioni verso le navi che lo hanno appena sbarcato sulla spiaggia sbagliata. Il generale ha capito. Ed infatti, gli occhi che già contemplano l’elenco degli uomini che cadranno e delle pene che i vivi subiranno, dice: “Qui siamo sbarcati. E la nostra guerra inizia qui…proprio qui…”

Questa è la vita. Riflette Aurelio ripensando a quel vecchio film di guerra. Non decidiamo noi le battaglie. Non decidiamo noi dove, con chi combatteremo e per cosa combatteremo. E non decidiamo noi nemmeno quando. Possiamo solo sapere che anche per un generale zoppo e a fine carriera può presentarsi, in una spiaggia invasa da uomini disorientati e terrorizzati, l’occasione del riscatto. E’ questo che spera Aurelio. Che per quanto in basso si possa scendere la vita, nella sua beffarda generosità, ci presenti una vaga speranza di riscatto cui aggrapparci.

E’ quasi buio. E’ tardi. Marianna non dovrebbe trovarsi ancora qui. E’ uscita tardi dal lavoro ed ha iniziato a correre che il sole strava per scomparire dietro il tendone del PalaSharp. Aurelio si sente in colpa. E’ li per correre ma anche, spera e teme Aurelio, per trovare il messaggio nella fenditura della sbarra.

Quanti giorni sono trascorsi così?

Aurelio non saprebbe dirlo.

Marianna, quando giunge alle sbarre scrostate, osserva con attenzione l’angolo, la sottile fenditure nell’acciaio. Cerca il biglietto che Aurelio le lascia ogni volta che lei va a correre. Vedere Marianna che cerca il biglietto, vederla sorridere, porta ad Aurelio una sensazione dimenticata. Marianna non risponde mai a quei brevi messaggio. Si limita a guardarsi intorno cercando segni di quello sconosciuto ammiratore senza mai vedere nessuno. Nessuno, se non Aurelio, che ormai ha amaramente compreso di non rischiare nulla mostrandosi a Marianna nei pressi delle sbarre di ferro dipinte di azzurro.

Un giorno Marianna, con aria ansiosa, dopo averlo osservato per qualche istante, ha camminato decisa verso di lui. Il cuore di Aurelio ha iniziato a battere come se volesse spaccare la gabbia toracica. Una sensazione di ebbrezza, una perdita del senso della realtà, si è impadronita sempre di piu’ di Aurelio ad ogni passo compiuto da Marianna. La sensazione, l’euforia e il terrore, di essere stato scoperto. Un possibile inizio. All’improvviso Marianna si è fermata. Come sospesa, indecisa sul da farsi. Ed è tornata verso le sbarre riprendendo gli esercizi.

Aurelio ha temuto che volesse semplicemente domandargli se avesse ha visto qualcuno lasciare un biglietto.


Le lampade, sino a poco prima gocce di fredda luce diluite nelle onde rossastre del sole al tramonto, ora iniziano a trasformarsi in piccoli globi luminosi. Oasi, nel gelido buio sceso come una cappa sugli alberi ancora spogli e sulla terra fangosa. Marianna corre. Ha fretta di arrivare alle sbarre ed andare a casa. Aurelio lo capisce dal passo. Dall’irregolare intensità con cui nuvole di vapore avvolgono Marianna nei pressi dei lampioni. Dalla testa piegata in avanti nello sforzo di respirare aria troppo fredda per correre e dalle mani che si aggrappano ai polsini della felpa blu per ripararsi dai rigurgiti di gelo degli ultimi giorni di inverno.

Aurelio, mentre la aspetta, nascosto nella piccola valle tra il bocciodromo e la montagnetta, vede la berlina nera che risale verso i panettoni di cemento. I vetri posteriori oscurati e la targa rumena. Prima che le porte si aprano, la luce di cortesia si accende all’interno della vettura. Tre uomini, la giacca di pelle nera aperta, scendono per incamminarsi verso la zona pedonale. Marianna compare ora sul sentiero. Non può vedere i tre uomini perché nascosti dietro il terrapieno. Se li vedesse proverebbe la stessa sensazione di paura che ora prova Aurelio, immobile. Se li vedesse scapperebbe. Il passo deciso, la mano di uno dei tre che pare controllare qualcosa infilato nei jeans scuri, la torcia che uno dei tre accende ed immediatamente spegne come per provarla, tutto spaventa Aurelio. Tra loro e Marianna non c’è nulla. Ed infatti, appena la vedono, le mani che tastano il gelido tubo azzurro in cerca del biglietto, iniziano ad urlare frasi le cui parole sono incomprensibili ma il cui senso, nella brutalità e nella sguaiatezza dei suoni gutturali, è chiaro. Marianna, come chi sa di aver intuito un pericolo ma che teme di scatenare quello stesso pericolo fuggendo, cerca di ignorare quei tre uomini che ora paiono aver cambiato direzione. Aurelio, ancora paralizzato da un gelo che dal ventre è scivolato verso le gambe intorpidendole, la vede cercare con gli occhi qualcuno. Qualcuno verso cui urlare o da cui rifugiarsi. Forse, sente Aurelio, l’autore dei biglietti.

I tre, come se ubbidissero ad un unico cervello, si aprono a ventaglio tagliando ogni via di fuga di Marianna verso la strada e la luce. Addentrarsi nel buio alle sue spalle equivarrebbe ad una condanna. Forse non vuole credere a quello che sta accadendo. Forse vuole ancora sperare che ne uscirà. Che non sta capitando a lei. E quindi non corre. Forse, stima Aurelio dalla sua posizione, potrebbe sfuggire a quei tre che non paiono attrezzati per starle dietro. Ora Marianna è chiusa tra i tre uomini e le sbarre azzurre. Uno dei tre la afferra per il ventre e la stringe a se. Marianna scalcia e sbraccia cercando di svincolarsi. Urla. Una mano le strozza in gola le richieste di aiuto. I tre, tenendola stretta, la trascinano verso il cuore nero della montagnetta. Verso le valli in cui, di notte, nulla è visibile.

Non scegliamo noi dove, quando, contro chi o che cosa e per cosa siamo chiamati in battaglia. Questo pensa Aurelio. Estrae il cellulare dalla tasca della giacca e richiama l’ultimo numero chiamato. Stringe il cellulare in mano ed inizia a correre. Un urlo sfugge alla mano che soffoca la bocca di Marianna. Aurelio corre piu’ forte. Si porta il telefono all’orecchio e continua a sentire il suono di libero. “Rispondi…rispondi…”.

Mentre corre pensa cosa fare. Potrebbe urlare per spaventarli e costringerli alla fuga. Il rischio è di perdere l’unico vantaggio che ha: la sorpresa. Arriva sul sentiero che ha inghiottito Marianna. Eccola, dietro la prima curva, costretta a forza nell’erba fradicia qualche metro sopra il livello del sentiero. Due uomini si affannano per tenerle le braccia, le gambe e la bocca chiusa. Il terzo, con la torcia che illumina la scena, si slaccia i pantaloni. Non lo hanno ancora visto o sentito. Aurelio, il cellulare ancora stretto in mano, si arrampica, cercando di fare meno rumore possibile, sul declivio. Giunto qualche metro sopra la posizione in cui si trova Marianna, si slancia verso valle come una bomba. I muscoli tesi, le braccia aperte, spicca un volo. Sa che l’unica possibilità che ha è quella di atterrare tutti e tre gli uomini. Sorprenderli e regalare a Marianna una frazione di secondo per permetterle di correre. Scappare.

Quando ha capito che tutti i tre sono sulla sua traiettoria, che riuscirà a farli rotolare per qualche metro, urla: “Coooooorriiiiiiiiiiiiii!”.

Il sapore del sangue in bocca. Il dolore lancinante alla spalla. Le bestemmie e le imprecazioni dei tre e i tre corpi che rotolano pesantemente con il suo sino all’impatto con la ghiaia qualche metro piu’ sotto. Con le mani doloranti cerca di trattenere il piu’ possibile i tre uomini. Con le gambe scalcia cercando di far male e rialzarsi per lottare ancora. Nella nebbia pulsante che è calata sui suoi occhi riesce distinguere Marianna che corre. Corre veloce come sa. Con una mano Aurelio afferra il piede di uno dei tre che si è gettato all’inseguimento. Sono solo poche decine di metri. Basta darle pochi secondi. “Corri…corri Marianna…” Questo pensa Aurelio vedendola girarsi verso di lui poco prima che un calcio si abbatte sul suo fianco ed un pugno crolli proprio dietro il suo orecchio destro. Piu’ pugni arrivano, piu’ calci affondano nelle sue costole piu’ Aurelio si convince che Marianna ce l’abbia fatta.

I colpi all’improvviso si fermano. I tre uomini, Aurelio conta quattro scarpe di fronte ai suoi occhi piu’ una che affonda ancora nella sua schiena, si scambiano parole rabbiose e cariche d’odio. Uno dei tre pare che lanci un comando. Aurelio, ormai impotente, sente un rumore metallico.

Riconosce, prima ancora che il suo cervello scavi nella memoria, il rumore del carrello di una pistola semi automatica. Il rumor che fa una pistola, armando il cane, prima di sparare. Aurelio si stringe sperando che il terreno lo inghiotta. Stringe gli occhi aspettando il colpo. Immagina arrivi al petto. O forse gli fracasserà la testa. Si sforza, mentre i tre parlottano, di pensare a lei. Di pensare che alla fine una possibilità di ricatto gli è stata data. Che tutto ha avuto un senso. Che tutta la sua vita, ogni giorno, ogni istante, ogni precipizio in cui è caduto, ha avuto un senso. Nulla è andato sprecato. Ha avuto la sua possibilità e l’ha sfruttata. E’ con l’anima leggera che aspetta la morte. Ha persino il tempo di stupirsi di quante cose si possano pensare in così pochi istanti prima di sentire lo sparo e una pressione improvvisa e violenta allo stomaco. Poi la sensazione che la vita, come da una bottiglia di latte rotta, stia scivolando via svuotandolo.

Poi una luce blu…il rumore di un motore…portiere che sbattono ed un uomo che urla…

“Butta quella cazzo di pistola….”
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