martedì, marzo 18, 2008

Indizi e speranze

La vita è disseminata di falsi indizi e false speranze. Tracce capaci di confondere anche i piu’ attenti ed indurre in errore i piu’ esperti. False piste, messe a bella posta, ci distolgono dal riflettere sulla reale strada che stiamo percorrendo. Tutto è una lenta erosione. Un lento, quotidiano, digradare che ci allontana da ciò che conta. .

Questo pensa Aurelio mentre si chiude il giaccone sul petto. E riesce, con distacco, a rivedere, in quella che era la sua scintillante e perduta esistenza, i piccoli segni del suo precipitare. Lo sbriciolarsi della sua esistenza. La coltre di terra che ha sepolto tutto e nella quale, sino a spezzarsi le unghie, ha scavato alla ricerca dell’irrecuperabile.

Con attenzione, le mani tremanti per l’astinenza ed il vento tagliente , riesce persino a vedere i suoi falsi indizi, le illusioni, che lo hanno condotto giorno dopo giorno. Il lento allontanarsi da Rita. La sottile freddezza e distanza, da lui ha sempre liquidata come momentanea, che ha sommerso il rapporto con la sua ex moglie. Le scelte economiche errate. L’abbandono da cui era convinto di poter riemergere.

Questo pensa Aurelio mentre, per la prima volta da mesi, ha qualcosa su cui riflettere. Ha un gesto, parole, di un uomo che non appartiene alle esistenze sommerse in cui lui si muove, da comprendere e valutare.

L’indicatore di carica della batteria è quasi al massimo. Aurelio, ora, fissando quella barra tratteggiata che brilla nel buio, non si sente piu’ solo un fagotto di stracci sporchi. In un enorme schermo, che rappresenta Milano, anche lui è un pulsante punto luminoso. In tasca ha un cellulare ed un numero da chiamare. Una piccola rete di relazioni connette ora Luca, Marianna e lui stesso.

Costeggia l’imbocco dell’autostrada. Verifica che la tasca interna della giacca non abbia buchi. Vi infila il cellulare, dopo aver registrato il numero di Luca, lo scontrino, 20 euro e chiude il bottone.

Fa uno spazio, frugando nel mondo di carte e documenti ormai illeggibili che si porta dietro nelle tasche del giaccone, per il cavo con il trasformatore Oltre il guardrail, oltre le macchine che filano rabbiose, osserva la montagnetta. Per la prima volta, da quella posizione, gli appare minacciosa. Il versante rivolto verso il centro della città, visto da quell’angolatura e da quella distanza, è piu’ simile ad una parete che ad un declivio. Gli alberi, su quel lato, crescono in maniera piu’ irregolare. La presenza di quello che in definitiva è un gigantesco cumulo di macerie gli appare ora, per la prima volta in anni, strana. Chi ha voluto erigere quel gigantesco monumento funebre per i palazzi, le fabbriche, le chiese, in ristoranti, gli alberghi sventrati dalle bombe? E perché proprio li?

Un monito per le generazioni future su cosa può accadere quando si è trascinati nel baratro dell’odio?

In una città completamente piatta (ad Aurelio viene in mente una sola discesa che dal Parco Sempione porta verso Vincenzo Monti) qualcuno ha voluto creare una collina che di naturale non ha nulla. Pescando nei suoi ricordi d’infanzia, Aurelio, ricorda di quando con la sua classe delle elementari, erano i primi anni ottanta, aveva assistito, cantando canzoni degli alpini, alla posa, come fossero pali della luce, dei primi timidi alberi che avrebbero popolato e rinverdito il calvo e pietroso cumulo.

Nella sua esistenza ormai priva di riferimenti si accorge che da giorni, settimane, da quando insomma ha visto Marianna, la sua esistenza gravita intorno ad un asse sepolto sotto tonnellate di mattoni, intonaci e tegole. La soluzione di tutto, pensa ora mentre percorre per l’ennesima volta il cavalcavia, è li. Marianna è dietro qualche siepe. Riversa e coperta di foglie in qualche anfratto o con il volto ormai gelido rivolto verso un muretto a secco dove nessuno guarda mai. Accelera il passo ed il suo cuore il battito. Non ha guardato ovunque. Preso dai suo pensieri, dalle sue elucubrazioni, non ha guardato e riguardato ovunque. Marianna è morta. E lui l’avrebbe potuta salvare se solo avesse cercato. Se ora qualcuno lo vedesse, vedrebbe un barbone, gli occhi vitrei e sgranati, quasi correre rigido e barcollante sotto il peso dei troppi vestiti indossati. Aurelio tasta la tasca interna della giacca. Gli torna alla mente una storia che i ragazzini si raccontavano nelle lunghe e acide sere estive passate davanti alle latterie. All’interno della montagnetta, quando furono accumulate le macerie della guerra, fu costruito un enorme bunker dove, se fosse esplosa la bomba, qualcuno vi avrebbe trovato rifugio. Qualcuno raccontava che di notte si vedevano le luci posteriori rosse di auto dell’esercito sparire nel nulla e che all’improvviso, dai sentieri posti piu’ in alto, comparissero sempre dal nulla soldati in divisa ed armati. I piu’ arditi si spingevano a raccontare di alcuni amici troppo curiosi scomparsi sulla montagnetta. Vaga per alcune ore, le mani ormai insensibili per il gelo ed i tagli che si è procurato, cercando di smuovere enormi lastroni di cemento armato, frugando nei tombini e negli scoli dell’acqua.
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