lunedì, novembre 14, 2005

Un ufficiale

L’effetto sul plotone, e sull’intera compagnia, fu immediato. Lo spettro di essere cacciati, che tante volte ci era stato fatto danzare di fronte, era svanito nel nulla. L’impunità di Persico era l’impunità di tutti.

Se la paura di essere allontanati era scemata, ben vivo era comunque il terrore di non tornare a casa per un mese consecutivo o, peggio, quello di finire in mensa per una settimana di seguito.

Trascorse un giorno durante il quale Radio Anfibio fece girare la versione di Persico sull’intera vicenda. Il sottotenente Milanesi era ormai screditato e sul tenente Grossi gravava l’accusa di essersi fatto intimidire dallo zio Generale.

Il giorno seguente ero piantone in armeria. Con la mia mimetica verde oliva montavo la guardia alle scale che portavano alle camere blindate che contenevano carabine e pistole. Il mio compito, in realtà, era quello di scattare sull’attenti all’avvicinarsi di qualsiasi essere diverso dall’allievo.

Dopo un paio d’ore che ero montato di servizio comparve, dall’ultima rampa di scale, il sottotenente Milanesi. Io scattai sull’attenti.

Era di picchetto e quindi indossava la fascia azzurra ed il mantello pesante. Paludato in quella maniera pareva un fantasma in pena che si aggirava tra le vecchie mura della caserma.

“Guglielmo…comodo” mi disse.
“Come sta?” buttò li.
“Bene…lei signor tenente?”
“Bene…bene…me lo darà ancora il ritti domani quando entrerò in aula?”
Il ritti si dava quando un superiore entrava in aula. Il capoplotone dava l’attenti a tutto il plotone e quindi presentava la forza. Era una specie di passaggio di consegne ed un gesto di rispetto verso il superiore.

“Certo tenente…perché non dovrei?”

I suo occhi si velarono di lacrime. Non era certo quello che mi aspettavo dal comandante del mio plotone ma compresi che non era stato per caso che Milanesi aveva percorso le rampe di scale sino all’ultimo piano. Per un istante diventammo due ragazzi, in un ambiente diverso dal mondo cui erano abituati, che stavano facendo semplicemente il militare.

“Per quello che accaduto con Persico…” sussurrò.

“Tenente…lei ha fatto il suo dovere. Sono altri che non hanno tenuto fede alle promesse fatte. Io ed il plotone abbiamo stima di lei. Ha agito per il meglio…”

“Non voglio pensiate che io mi accanisca con Persico. E’ solo che voglio fare il mio dovere. Il
regolamento è questo. Lei lo vede Persico con una pistola in giro a fare il Carabiniere?”

“No..” risposi.

“Io non voglia avere questa responsabilità Se gli capitasse qualcosa o se la vita di qualcuno dipendesse da lui e lui non fosse preparato? Di chi sarebbe la colpa? Chi lo farà uscire da qui?
Io…ci sono alcuni meno svegli di lui che però cercano di fare del loro meglio…lui se ne frega.”
“Tenente…posso farle una domanda?”

“Dica…”

“Ma lei è di leva?”

“Certo…sono come voi…lo sa che da quando ho mandato Persico da Grossi nessuno mi rivolge piu’ la parola? Lo sa come mi chiamano gli altri sottotenenti? Don Chisciotte…perché dicono che combatto contro i mulini a vento…a tavola pranzo da solo e la sera nessuno esce piu’ con me. Grossi, quando mi ha fatto chiamare, mi ha strappato in faccia il foglio che gli avevo mandato su e mi ha detto di tenere la testa a posto. E per completare il quadro mi ha messo di servizio la sera di Natale e Capodanno.”

“Lei ha fatto il suo dovere…”

Si fermò ancora una decina di minuti durante i quali parlammo della vita che conducevamo da civili e di cosa ci aveva portato nell’Arma.

Quando sia allontanò lo salutai militarmente. L’istante era svanito.

Il giorno seguente si presentò al mattino in aula. Diedi il ritti e lui mi sorrise. Dopo poco comparvero, cosa strana, i due marescialli al comando di Milanesi. Il sottotenente allora riprese le interrogazioni. Dopo un paio di gruppi di interrogati fece silenzio per un po’.
“Persico..” disse levando uno sguardo fiammeggiante dal registro “ ci riproviamo?”

Persico, un pò perplesso ma, certo della sua posizione, uscì e rifece scena muta. Raccolse il foglio che Milanesi gli porse e ripartì con destinazione Grossi con il solito sguardo da cane battuto. Ma quella volta aveva fatto male i conti. La presenza dei due marescialli impediva qualsiasi tentativo di insabbiare la questione.

Persico, dopo aver pianto e gridato sulle scale che suo zio avrebbe fermato tutto prima della partenza, lasciò la caserma la mattina seguente verso le dieci. Gli fu impedito di portare via qualsiasi cosa gli fosse stato consegnato e, poiché alla prima occasione eravamo stati obbligati a riportare a casa le valigie usate per arrivare in caserma ed era proibito tenere qualsiasi abito civile, dovette partire con una tuta leggera ed un sacchetto della spesa pieno delle sue cose in una gelida mattina di dicembre.

Che cosa accadde?
Grossi cambiò idea, Milanesi forzò la questione fino alla rottura?
Quello che so è che una sera, io ed altri, usciti per un breve permesso incontrammo il nostro sottotenente in giro da solo per Torino con l’aria ben poco felice. Credo che i sei mesi che gli mancavano al congedo non furono molto piacevoli.

Il giorno della partenza gli consegnammo il gagliardetto che avevamo fatto fare con stampato il motto ed il nome che lui aveva dato al nostro plotone. Si commosse non poco e, a fatica, trattenne le lacrime. Quando salimmo sull’autobus non venne nemmeno a salutarci.

Trascorsero i mesi. Una mattina di ottobre mi trovavo in Duomo in servizio. Insieme ad altri due osservavamo il traffico della piazza godendoci quel servizio di rappresentanza. All’improvviso vidi un ragazzo staccarsi dalla folla. I capelli molto più lunghi e una montatura di tartaruga lo facevano somigliare ad uno studente. La camicia fuori dai pantaloni ed un giubbotto senza maniche. Mostrava tutti i suoi 26, uno meno di me, e tutta la sua insicurezza. Calcolai che si era congedato da almeno tre mesi. Si avvicinò e lo riconobbi subito. Scattai sull’attenti e, sorridendo, lo salutai militarmente.

Lo salutai, come si saluta un ufficiale dei Carabinieri…


Guglielmo
Creative Commons License